ultimo aggiornamento 16/11/2020

Lino Guanciale: "Campanile testimonianza di come l'ironia smascheri le strutture"

Intervista a cura di Rocco Della Corte



41 anni e una carriera fittissima fatta di teatro, cinema, televisione. Amato per i personaggi che interpreta nelle fiction, ma anche per alcuni storici ruoli come in "Romeo e Giulietta" diretto da Gigi Proietti al Globe Theatre. Dal 2005, inoltre, ha iniziato l'attività di divulgatore scientifico-teatrale nelle università e nelle scuole. Il protagonista de "L'Allieva", solo per citare una delle esperienze tv più recenti, si conferma uno straordinario comunicatore che condensa nelle sue parole la conoscenza, l'amore per la professione, la capacità di andare in profondità nelle tematiche proposte. Sette domande piuttosto aperte e sette risposte una più sentita dell'altra. Lino Guanciale parla di Achille Campanile, lo analizza, lo racconta e lo spiega con la semplicità dell'attore consapevole e formato.
 
Lino Guanciale, un breve passaggio sul suo ingresso nel mondo del cinema: dopo la laurea in Lettere alla Sapienza, è passato all’Accademia e poi ha vinto il Premio Gassmann: gli studi hanno influito sulla sua scelta professionale?
 

Sicuramente nel mio caso gli studi di lettere hanno influito sul mio percorso. Io ero decisamente digiuno di teatro, ero un ragazzo di buone letture dal punto di vista narrativo, ma, come succede ormai da generazioni nel nostro Paese, anche una persona che si avvia ad essere mediamente colta non necessariamente comprende nel proprio cosmo di riferimenti culturali il teatro. Altrove è abbastanza imprescindibile che una persona con una buona educazione, come si dice, conosca anche il teatro, che ne abbia quantomeno dei riferimenti classici importanti. Questo è stato vero in Italia fino ad una certa altezza cronologica. Posso confermare che almeno dalla generazione precedente la mia l'educazione teatrale non è più stata un requisito per essere definiti persone istruite o addirittura colte. Nel mio caso avere un dirozzamento, diciamo così, dal punto di vista storico teatrale, ottenuto attraverso i due anni di corso universitario che feci prima di entrare in Accademia (poi comunque continuai l'Università anche durante l'Accademia, potevo farlo all'epoca) mi hanno facilitato molto nell'ingresso in un mondo di cui ignoravo qualunque cosa. Avevo anche poca pratica, in effetti. Avevo fatto teatro soltanto l'ultimo anno delle superiori nella mia città, Avezzano in provincia dell'Aquila, dove il teatro all'epoca neanche c'era come edificio fisico, quindi ero carente di riferimenti, di orizzonti, avevo soltanto una passione ancora da specificare. Senz'altro sia da un punto di vista teatrale generale, sia da un punto di vista metodologico, per l'acquisizione di un metodo di studio, l'avere affiancato l'università agli studi accademici ed averli fatti precedere anche da quelli universitari mi ha molto arricchito sotto diversi aspetti facilitato.
 

Insieme all’attività attoriale, ha intrapreso anche quella di insegnante di teatro nelle scuole e nelle università: i ragazzi sono più attratti da un teatro umoristico o da un teatro classico? Come percepiscono il mondo della recitazione?
 

Per quella che è la mia esperienza, ormai più che decennale, di lavoro nelle scuole, in giovane età non si è necessariamente orientate/i su una preferenza marcata per il teatro classico o quello umoristico. Le/I giovani sono in generale piuttosto affamate/i di conoscere, anche se magari non lo sanno. Perché il teatro è questa specie di oggetto magico in grado di entusiasmare, se veicolato nel modo giusto. E non esiste modo migliore per parlare di teatro ai ragazzi e alle ragazze, che far parlare degli/delle attori/attrici davanti loro, perché sentirne parlare da persone per lo più competenti, anche da un punto di vista storico-critico, e alternandolo a momenti di recitazione, si conquista lo sguardo le orecchie la mente delle/dei ragazze/i. Ci vedono una via di incarnazione dei testi, un modo di portare addosso a sé stessi/e, dentro sé stessi/e anche, i testi che non sospettavano così efficaci godibili e profondi. Non sospettavano e non lo sospettano. E' qualcosa di cui hanno bisogno anche se ancora non la conoscono. Quindi in questa condizione limbica, diciamo, un buon lavoro può essere fatto sia con i classici sia con testi umoristici. E' facile che le/i ragazze/i si appassionino ad autori come Moliere o Shakespeare dove sia l'aspetto drammatico che quello del ludus teatrale sono molto forti. Ma non è meno vero che materiali anche come quelli Pirandelliani possano essere facilmente accattivanti, parola bruttissima ma che rende l'idea per comodità, con i/le giovanissimi/e. Se il teatro più leggero, come erroneamente spesso lo si crede, (meglio usare l'aggettivo che voi proponete: umoristico) può essere un buon veicolo per far percepire il teatro come un luogo di godimento, di diletto intelligente, è vero anche che i classici sono uno strumento potentissimo sui/sulle ragazzi/e.
Il mondo della recitazione in giovane età viene percepito in una maniera molto vaga, e forse, nel nostro Paese, non solo in giovane età: non si ha bene idea di che cosa faccia un attore o un’attrice, di che meccanismi metta in atto per fare quello che fa. Per questo credo che lo strumento vincente nella formazione del pubblico di domani per il teatro, ma più diffusamente per le arti in genere, sia che professionisti aprano una specie di finestra sul proprio laboratorio nei confronti dei/delle giovani, "sporcandosi le mani" ed andando a trovarli nei luoghi dove si formano, le scuole e le università.
 

Si è trovato a parlare di Achille Campanile in una sua lezione? Come, questo autore così precursore dei tempi, può risultare attuale nella società contemporanea che interpreta l’umorismo in una maniera diversa?
 

A me è capitato diverse volte parlando della drammaturgia novecentesca, di parlare nelle scuole di Achille Campanile. Mi è sempre capitato di utilizzare (e come avrebbe potuto essere altrimenti) estratti dalle tragedie in due battute. Questo perché i/le ragazzi/e percepissero come l'Italia non fosse del tutto periferica rispetto a quanto accadeva nel resto d'Europa, quanto ad elaborazione teatrale del XX secolo. Come cioè determinati rivoli sia drammaturgici sia teatrali in generale che porteranno alla comparsa ed alla crescita di autori come Beckett, Ionesco, tutta l'onda del teatro dell'assurdo ma non solo, la tendenza ibrida della drammaturgia contemporanea, fino al melange di elementi drammatici ed umoristici, avesse dei punti di emergenza anche in Italia, di cui Campanile è senz'altro un illustre testimone. Mi è capitato di parlare di Campanile usando questo suo materiale per far vedere ai/alle ragazzi/e non solo, come dicevo, che l'Italia non fosse del tutto una periferia dell'impero, ma anche quanto anche dalle nostre parti si potesse costruire una produzione teatrale non paludata e capace di grande agilità critica e di efficacia dal punto di vista del divertimento. Mi è capitato di accostarlo a Pirandello, di parlarne come di personalità letteraria assolutamente integrata alla stagione floridissima della nostra letteratura a tutto tondo del primo novecento, e mi è capitato di parlarne anche nei termini in cui poi, negli anni dopo la guerra, fosse stato recuperato da ingegni come Eco, sensibilissimi all'importanza dell’ umorismo, non come categoria secondaria della scrittura (in generale, e della scrittura teatrale in particolare) ma come insieme in qualche modo fondativo della scrittura stessa, essendo il Novecento un secolo che molto mescola le carte al di là dei paletti che la critica storica istituisce per definire gli autori.
 

Molti classici hanno constatato e dimostrato che l’etichetta di “umoristico” in riferimento a Campanile sia riduttiva. Lei concorda, da addetto ai lavori, anche pensando alla produzione teatrale campaniliana?
 

Come già adombravo nella mia risposta precedente, confermo assolutamente che sia valida la direzione che la critica contemporanea ha preso riguardo Campanile, tesa a superare determinati steccati di comodo, L'umorismo non va confuso con il recinto della produzione commerciale. Detta in altre maniere, non è che perché uno scrive cose divertenti queste cose non siano intelligenti o dotate di una profondità di sguardo nei confronti della realtà. Tutt'altro! Campanile è la prova di come si potesse acutamente non soltanto riflettere ma rappresentare determinate tendenze culturali del nostro Paese, della nostra mentalità, della nostra tradizione letteraria attraverso la lente non deformante, ma tutt'altro, estremamente ficcante dell'ironia. Credo che sia questa la categoria che più intelligentemente vada usata per leggere la sua opera. D’altra parte, essendo l'ironia anche una categoria di critica inerente la tragedia. C'è sempre nei grandi autori (perché altrimenti forse non si può parlare di grandi autori - mia opinione personale!) l'attitudine, anche in un discorso tragico e sublime, al ribaltamento dello sguardo, che è quello che avviene nei celebri passaggi di ironia tragica anche dei grandi tre tragici classici (Eschilo, Sofocle, Euripide). Campanile è la testimonianza di come anche nella nostra scrittura moderna l'ironia possa essere lo strumento non tanto dell'ammicco al pubblico, ma dello smascheramento delle "strutture" sia della realtà, o meglio delle sue pieghe più profonde, sia dei tic, delle convenzioni, delle ipocrisie della letteratura stessa.
 

Lei è uno degli attori più amati e apprezzati nella Da “Che Dio ci aiuti” a “Non dirlo al mio capo”, fino a “L’Allieva” sono molte le situazioni ironiche che si mettono in scena. Sarà anche un luogo comune, ma l’ironia salverà il mondo?
 

Da un lato sono assolutamente convinto che l'ironia possa salvare il mondo o possa in qualche modo salvarci dal mondo, consentendoci con il giusto distacco e la giusta lucidità (perché anche questo è l'ironia) di leggere le cose per quello che sono ed allo stesso tempo restare sufficientemente distaccati in maniera da correre ai ripari, o preparare delle alternative. Non a caso l'autore che sopra tutti a teatro per me è un punto di riferimento, Brecht, dell'ironia fa un marchio di qualità, ne fa in qualche maniera il fondamento della propria tecnica di estraniamento. Sono anche convinto che poi si debba distinguere tra la scrittura teatrale comica più poggiata sulle aspettative del destinatario e quella più nobilmente ironica. Questo perché se è vero che la produzione televisiva è figlia comunque di una tradizione letteraria anche molto precedente (determinati prodotti, o un determinato modo di concepirli, non sono nati certo nel Novecento o nel Duemila ma nascono anche dalla tradizione teatrale ottocentesca in qualche maniera se non ancora precedente) è pur vero che vanno sempre distinti dei livelli. Quello che posso dire è che mi augurerei di lavorare più spesso possibile in produzioni che non utilizzino soltanto codici comici volti a catturare l'interesse di un certo tipo di pubblico, interessato a prodotti il più leggeri possibili, ma di lavorare per serialità o per film che seguano come proprio riferimento più la lucida e caustica ironia di Campanile, o mutatis mutandis, di un erede come può in qualche modo essere Flaiano.
 

C’è un attore di cinema e di teatro, tra i grandi della scuola italiana del ‘900, con il quale avrebbe voluto recitare? Perché?
 

Qui sono un po' in difficoltà, ma alla fine la scelta la faccio chiaramente: Marcello Mastroianni. Faccio però un distinguo, poiché, sicuramente da un punto di vista deontologico ed artistico in senso stretto, per le qualità, il talento, l'inventiva dimostrata in tutte le sue apparizioni, Gian Maria Volonté è un riferimento che non soltanto appartiene a me ma a tutta la generazione di attori di cui faccio parte. Mi auguro inoltre che continui ad essere un riferimento anche per le generazioni future, perché è stato, al di là dell'alveo attoriale, cinematografico, teatrale, l'esempio forse più fulgido di artista engagé nel nostro paese nel secondo Novecento. Da appassionato della storia dei nostri grandi attori del Novecento però, dico che sul set o a teatro mi sarebbe piaciuto lavorare con Marcello Mastroianni, perché c'è una cosa che mi incuriosisce enormemente di lui, che è questa: da tutte quante le dichiarazioni che ho potuto leggere o studiare riguardanti i suoi colleghi o persone che gli erano vicine nel lavoro o nella vita di ogni giorno, appare il ritratto di un uomo in grado di non mettere mai una discontinuità fra l'umanità che era capace di dimostrare fuori dal set o dal palcoscenico (su questo, ad esempio, delle testimonianze di una cara amica Paola Petri, vedova di Elio Petri, che ne ha fatto dei racconti di vita quotidiana sull'umanità di Marcello Mastroianni, sono state importantissime per me nell'enucleare questa riflessione), nondimeno questa grande umanità fuori dalla professione era la stessa che questo enorme attore era in grado di mettere nel suo lavoro. Penso a film memorabili come "Una Giornata Particolare" o apparizioni teatrali fulgidissime come la ultima sua "Le Ultime Lune", spettacolo che portò in scena nella fase finale della propria vita e della propria malattia. Se uno guarda a queste opere riscontra come più di ogni altro collega del suo tempo Mastroianni fosse in grado di consegnare al pubblico un vero, radicale, investimento umano nel suo lavoro.
 

Concludiamo con un rimando ai classici della letteratura: lei ha prestato la sua voce alle pagine dei più grandi autori, da Svevo a Ovidio, da Saba a Montale. Cosa serve ad un testo, poetico o narrativo che sia, per essere veramente un ‘classico’ universale?
 

Io credo che a un testo, per essere veramente considerato grande ed universale, servano diverse cose, alcune delle quali ovviamente misteriose. Però facendo mia la definizione di Calvino, "un classico è un testo che non finisce mai di dire quello che ha da dire a prescindere dalle epoche e dei luoghi", credo che un'opera riesca davvero a risultare così potente nel momento in cui è capace ad esempio di modulare al proprio interno registri diversi accostandoli anche in maniere inaspettate, nuove. Un testo è veramente grande, ha un potenziale universale autentico, credo, quando riesce nell'impresa di generare al proprio interno anche un potere antifrastico sorprendente per il lettore. Se dunque, all'interno delle pieghe di un testo estremamente drammatico, ad un certo punto si apre uno squarcio di ribaltamento ironico forte e sorprendente, che porta al riso il lettore in quel momento in maniera totalmente epifanica e del tutto non preventivata, credo si sia di fronte a testi che possono effettivamente parlare trasversalmente a lettori sia di provenienze diverse sia di epoche diverse. Quando penso a questa qualità non posso non pensare a Gadda, a Saba, a grandi classici come Ovidio, anche, oltre a Brecht che ho citato precedentemente, all'importanza per la nostra cultura di autori come Campanile stesso, in qualche modo capaci di essere maestri del ribaltamento dello sguardo. Ovvio ci sono tante altre cose che fanno grande un testo, ma questa capacità di sorprendere il lettore attraverso il ribaltamento ironico credo che sia una delle cartine tornasole della grandezza di un classico.
 

 
Foto: Manuel Scrima

Intervista esclusiva a cura di Rocco Della Corte – Responsabile Ufficio Stampa e Comitato Scientifico “Campaniliana” – Rassegna Nazionale di Teatro & Letteratura – www.campaniliana.it. Si ringrazia Lino Guanciale per la disponibilità e la gentilezza.